Joë Bousquet – Il silenzio impossibile

di Alfonso Lentini

La misura breve della scrittura, che trova nell’aforisma la sua più nota espressione, ha morfologie svariate. Se l’aforisma è un giro di compasso che per quanto minuscolo risulta in sé concluso, altre forme di scrittura breve si accreditano in quanto puri e semplici frammenti e tendono verso l’apertura, somigliando a movimenti curvilinei la cui eleganza deriva proprio dal loro essere sospesi sul nulla, respiri solidificati, privi di inizio e di fine.
Antonio Castronuovo, squisito cultore di aforismi e scrittura frammentaria, opera in questo campo come autore in proprio, ma anche come traduttore e curatore, ed ha svolto negli anni in quest’ultima veste una preziosa ricognizione, spaziando in ogni tempo e in ogni latitudine, da scrittori della classicità antica come Sinesio di Cirene, al drammaturgo tedesco dell’Ottocento Friedrich Hebbel (i cui “Diari” erano vergati, si dice, su miriadi di foglietti volanti), allo scettico (e per questo inviso al fascismo) Giuseppe Rensi. Era naturale pertanto che prima o poi dovesse imbattersi nell’opera di Joë Bousquet, sospesa per sua arcana natura appunto fra aforisma e scrittura frammentaria.
Bousquet (1897-1950) è una figura appartata, ma non minore, di quella vasta spirale di artisti, poeti, pazzi e ribelli che fu l’esperienza del Surrealismo francese. Ferito in guerra e divenuto paraplegico, trascorse gran parte della sua vita intellettuale costretto all’immobilità nella penombra di una camera le cui pareti erano piene di quadri di Ernst, Mirò, Tanguy. Scrisse in queste condizioni una vasta teoria di opere (e abbozzi di opere, e ombre di opere, e sogni di opere) che formano nell’insieme le tappe di un unico journal.
Tutta l’opera di Bousquet sembra una sorta di rivisitazione allucinata del Viaggio intorno alla mia camera che un altro francese, Xavier De Maistre (fratello del più famoso Joseph) compose intorno al 1790 durante una sua forzata ma momentanea immobilità. A differenza di De Maistre, però, Bousquet non rimase chiuso nella sua camera solo nei 42 giorni di arresti domiciliari a cui l’altro era stato condannato: vi rimase per un’intera vita (al 41 di rue Verdun a Carcassonne), adagiato nel suo grande letto oramai tramutato in vascello di avventurose navigazioni mentali e afflitto da perenni sofferenze. Fra De Maistre e Bousquet, poi, c’è di mezzo il grande mare in tempesta del Surrealismo. La “malattia” del Surrealismo che cade a picco su una malattia materiale e inguaribile.
Il suo “viaggio” dunque non poteva essere ironico e scanzonato come quello di De Maistre, doveva essere per forza altra cosa: vagante, lancinante, onirico e sfrangiato.
Il silenzio impossibile (pubblicato a cura di Antonio Castronuovo dalle edizioni Via del Vento) propone ora per la prima volta in Italia un’ampia scelta di frammenti tratti da un quaderno di memorie, Le pays des armes rouillées (“Il paese delle armi arrugginite”) fra i tanti taccuini che Bousquet andava costantemente coprendo della sua fitta grafia, specialmente di notte.
Vi leggiamo righe (o solidificazioni di respiri) come queste: “Bisogna nascere di lato; ci si fa notare per gli sforzi compiuti a entrare nella fila. Un gatto in acqua, tutto qui”. E ancora: “Sono il punto di incontro in cui la luce è preda del buio”. “Sono sempre lo stesso e i miei giorni entrano dalla finestra: essi non giungono a me”. Annotazioni memoriali in cui però prevalgono ricognizioni oniriche: una specie di autobiografia del sogno, un capovolgimento del tradizionale genere memoriale che prevede il prevalere della veglia e del racconto realistico.
“Surrealizza il giorno, surrealizza la notte…” teorizzava infatti questo autore, il cui letto-vascello era divenuto intanto meta di visite sempre più frequenti da parte di poeti, filosofi e artisti come Ernst, Dalí, Bellmer, Miró, Klee, Valéry, Gide, Eluard, Aragon. La sua casa offriva rifugio ad ebrei perseguitati dal nazismo, mentre a distanza prendevano forma intrecci e amicizie con personaggi come Breton. Nel 1942 conobbe Simone Weil alla quale rimarrà legato sino alla morte.
Da lontano, nell’ombra, ma con un ruolo incisivo, Bousquet fu insomma una presenza-assenza, uno scrittore di grande finezza che le sofferenze e la prolungata immobilità trasformarono in uno straordinario “sensore predisposto all’ascolto dello spazio interiore” (Castronuovo).

Joë Bousquet
Il silenzio impossibile
a cura di Antonio Castronuovo

Via del Vento edizioni, Pistoia 2007. pagg. 35.

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Bando di concorso per collaborazione con la rivista Stratagemmi. Prospettive teatrali

Teatro e periferia. Un lavoro di lunga semina, quali risultati?

La rivista trimestrale di studi sul teatro Stratagemmi, giunta al suo secondo anno di vita, offre a tutti i suoi aspiranti collaboratori la possibilità di contribuire al sesto numero (giugno-agosto 2008) con la pubblicazione di un articolo dal tema Teatro e periferia. Un lavoro di lunga semina, quali risultati?
Nella sezione Taccuino (quella specificatamente dedicata all’attualità e con un taglio di inchiesta giornalistica) del quinto numero di Stratagemmi, la redazione ha avviato un lavoro di indagine incentrato sulrapporto tra teatro e periferie a Milano. Abbiamo incontrato i direttori artistici di alcuni dei molti teatri che popolano, spesso clandestinamente, la rete periferica della città e li abbiamo intervistati, scoprendo di volta in volta che tutti ritenevano superata o addirittura sbagliata la distinzione tra centro e periferia, soprattutto quando si parla di diffusione della cultura. Dalle loro parole abbiamo compreso che il lavoro di insediamento e integrazione nel territorio è uno sforzo continuo che spesso i piccoli e grandi teatri lontani dal cuore della città devono affrontare da soli, senza alcun tipo di sostegno e incentivo dalle pubbliche amministrazioni e dalle istituzioni che si occupano di teatro. Abbiamo incontrato proposte, programmi e realtà molto diversi; ma in nessuno di questi casi il termine periferia può essere disgiunto da alcune dinamiche di tipo sociale: la sicurezza, la mancanza di collegamenti con il centro, il disagio, il senso di non appartenenza alla città.
Con questo concorso la redazione vorrebbe aggiungere altre voci, da altre città italiane (e straniere?) per continuare a tracciare un itinerario tra coloro che si considerano, a ragione, “centri altrove” della cultura e della sua diffusione, specificatamente in ambito teatrale. Cerchiamo così aspiranti redattori che scovino, in qualsiasi periferia di qualsiasi città, volti sconosciuti di chi, lontano dai riflettori, ha ottenuto o cerca di ottenere risultati fuori dai centri istituzionalmente riconosciuti; storie nuove, in grado di raccontare le ricadute sulle periferie in cui si collocano e il rapporto col resto della città.
Il concorso è rivolto a tutti gli appassionati, cultori o studiosi di teatro, di giornalismo e di storie da raccontare, che vogliano cimentarsi in un articolo che, in caso di selezione, troverà posto nella seconda parte della rivista, il Taccuino.
Al bando possono partecipare tutti coloro che abbiano almeno un diploma di laurea triennale e non abbiano compiuto i 35 anni di età. Non è previsto alcun compenso in denaro. La redazione selezionerà tra tutti gli articoli pervenuti quelli meritevoli di pubblicazione.
I suddetti articoli dovranno essere di una lunghezza compresa tra le 8.000 e le 25.000 battute spazi inclusi.
La forma è libera, è ammessa (e incoraggiata) anche l’intervista, purché corredata da una introduzione comprensiva di una piccola biografia dell’intervistato/i. Con preferenza, gli intervistati devono essere i direttori artistici o comunque chi si occupa in prima persona dei cartelloni e del programma culturale dei teatri scelti. Ogni partecipante può presentare più di un articolo, e più candidati possono associarsi per presentare un dossier su più realtà di una stessa città.
Gli articoli devono essere inviati al seguente indirizzo mail: redazione@stratagemmi.it entro e non oltre il 15 maggio 2008 corredati da un breve c.v. dell’autore e la motivazione per cui si è scelto di parlare di quella realtà teatrale. E’ importante indicare il numero di telefono al quale i candidati potranno essere contattati in caso di selezione per la pubblicazione. Ogni candidato può richiedere a redazione@stratagemmi.it l’estratto in pdf dell’indagine pubblicata sul numero CINQUE, oltre a ulteriori informazioni.

www.stratagemmi.itcontattiabbonamenti@stratagemmi.it

Pontremoli editore, via Vigevano 15 – 20144 Milano tel. 0258103806 – fax 0258102157

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L’abete rosso

di Ghismunda

Mi piacciono gli alberi. Per motivi che poco hanno a che fare con l’ambiente o con l’estetica. Proietto in essi connotazioni antropomorfe: forza e saggezza in primis; ma anche pazienza, resistenza, dignità; come una superiore lungimiranza data forse dall’altezza o dal fatto di rimanere lì quando molti di noi non ci saranno più; capacità di sopravvivere, di rinascere al verde e alla vita anche in condizioni ostili. Per la forza delle radici.

La notizia è di ieri: in Svezia è stato scoperto l’albero più vecchio del pianeta. I suoi 8000 anni, datati al carbonio 14, ne fanno il più antico organismo vivente oggi conosciuto. Si tratta di una conifera, un abete rosso che ha superato “Matusalemme”, il pino Bristlecone di Las Vegas, sulle pendici della White Mountains, che ha “solo” 5.000 anni. Nel mio abbattimento presente, l’abete rosso, sfuggito al taglio indiscriminato delle foreste, si fa simbolo.

Forse ha ragione Nichi Vendola: di fronte alla scomparsa della Sinistra nel Parlamento italiano non ha senso cercare capri espiatori. Ma solo ricominciare, dalle radici e dalle viscere di ciò che è cambiato nella società in questi ultimi anni e che la Sinistra non ha saputo cogliere e capire. Prima di tutto quel voto operaio alla Lega, che tanto fa male e che forse non è solo espressione di protesta. Stamattina, spiegando in classe l’affermazione del nazismo in Germania e le ragioni del suo consenso, mi sono accorta, mutatis mutandis, di riecheggiare il presente: l’ascesa al potere del “nazionalsocialismo” fu garantita dall’appoggio non solo della grande borghesia industriale e agraria, ma anche da larghi strati medio-bassi della società, come gli operai dequalificati, asserviti alle moderne catene di montaggio della grande industria, e gli impiegati pubblici e privati, un largo ceto medio, ostile ai non-tedeschi, alle prese con le difficoltà, il carovita, e il grigiore del vivere quotidiano. Mentre l’ideologia nazista offriva risposte concrete in termini di sviluppo ed occupazione, la Sinistra si divideva: i comunisti facevano un tutt’uno di socialdemocrazia e fascismo, visti come varianti dello stesso dominio capitalista e perciò altrettanto ugualmente da avversare, favorendo così la deriva autoritaria della repubblica. Qualcosa si è ripetuto: la proposta liberal-moderata di Veltroni ha sdoganato l’estrema, a sua volta (auto)liberatasi dal perenne ricatto della coalizione che le aveva imposto scelte e votazioni in contrasto con la sua natura e la sua identità. Ma poi qualcuno ha giocato sporco: la pressione continua (un nuovo ricatto) del “voto utile” e la sbandierata esigenza di una semplificazione politica all’americana scambiata per vera democrazia, hanno portato o a qualche voto in più per il PD (per altro decisamente insufficiente rispetto all’oliata macchina berlusconiana) o ad una sofferta astensione. Dopo l'(auto)emarginazione, si è chiesto anche il suicidio ad una Sinistra che non ha trovato né il tempo né le forze né una proposta credibile da contrapporre alla sconfitta. Tutt’al più un provvisorio cartello elettorale, per giunta accompagnato da altre divisioni, un work in progress che non è mai partito. E che ora si traduce in disfatta. Ripartire, ora, bisogna dalla società, provare a rinascere, nelle forme di un anticapitalismo adeguato ai tempi, ma senza tagliare le radici, che affondano in una storia di conquiste che i giovani rischiano di non conoscere più. Già vedo prossima l’abolizione del 25 aprile, mentre con angoscia mi chiedo chi raccoglierà a livello istituzionale il grido dell’ennesimo operaio della Thyssen Terni, colpito a morte proprio ieri dal braccio meccanico di un escavatore. Mentre la Destra celebrava il suo trionfo.

Ricominciare, rimanere nella terra, nella società. Come l’abete rosso. A cui mi fa bene pensare.

La voce di Ghismunda, 15 aprile 2008

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Sei mesi senza ammazzare

8 aprile 2008

Dedicato a Vero Giusti (1924 – 2008)

Sono più di sei mesi che gli americani non ammazzano nessuno.
Non parlo ovviamene dell’Iraq, dell’Afghanistan o dei licei statunitensi, ma del braccio della morte, dove da lungo tempo il boia non si prendeva una vacanza.
Dal 25 settembre scorso, quando Michael Richard è stato ucciso perché la Corte Suprema del Texas chiude alle 17.00, non ci sono più state esecuzioni negli Stati Uniti d’America,
La ragione di questa moratoria non dichiarata risiede nella svogliatezza con cui la Corte Suprema Federale sta meditando sulla costituzionalità dell’uccisione con la siringa avvelenata e, quando la Corte riflette, non è permesso ci siano esecuzioni, non fosse altro che per ribadirne l’autorità.
Se gli americani fossero il popolo pragmatico di cui si favoleggia questa strana moratoria suggerirebbe molte considerazioni.
I forcaioli dicono da sempre che la pena di morte è un deterrente unico per il crimine e che ogni esecuzione salva la vita di dozzine di persone. Se fosse vero nei mesi scorsi avremmo dovuto assistere ad un vero e proprio mattatoio, con schiere di assassini potenziali che, non più trattenuti dallo spauracchio ineguagliabile della forca, avrebbero dovuto commettere una spaventosa serie di omicidi.
Invece non è successo proprio un bel nulla e gli americani si ammazzano più o meno come si ammazzavano un anno fa.
Non solo.
Se le statistiche valgono ancora qualcosa possiamo constatare che, dopo un picco di 98 esecuzioni nel 1999, abbiamo assistito a una brusca discesa del numero delle uccisioni statali, scese a 53 del 2006 e a 42 nell’anno scorso. Anche il numero di condanne a morte si è ridotto dalle 300 del 1998 a poco più di un centinaio (le esecuzioni sono prodotte da condanne di dieci, venti o anche trent’anni fa).
Tutto questo non ha minimamente influito sul tasso di omicidio americano che è rimasto estremamente stabile, attestandosi un po’ al di sotto del sei per centomila.
Tasso questo che, pur essendo tre volte quello canadese e sei volte quello italiano, è ben più basso di quello degli anni passati, quando arrivava al dieci per centomila e gli omicidi riuscivano ad essere 25.000 l’anno.
Le statistiche dimostrano, al di là del ragionevole dubbio, che gli stati americani senza esecuzioni non hanno nulla da invidiare a quelli che ammazzano i loro concittadini e che i loro tassi di omicidio sono normalmente più bassi.
In altre parole non sono la pena di morte e le esecuzioni a diminuire gli assassini.
I forcaioli si affannano a produrre studi con cui tentano di negare l’evidenza. Studi regolarmente sbugiardati da Fagan, Berk, Donnohue e Wolfers, e che raggiungono il patetico quando Lott scrive:

“The 12 states without the death penalty have long enjoyed relatively low murder rates due to factors unrelated to capital punishment.”

Se gli americani non fossero così violentemente ideologizzati la pianterebbero con questa costosa idiozia e abolirebbero la pena di morte.

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Onu: le dieci notizie “dimenticate” dai media

Il Department of Public Information (Dpi) dell’Onu […] ha stilato la lista dei dieci argomenti più ignorati dai media nell’ultimo anno. I dieci soggetti sono nell’ordine: Nord Uganda, le tappe verso la pace per regolare un conflitto che dura da più decenni; Gli esclusi: il mondo sigillato dei senza patria; I fenomeni climatici estremi diventano “normali”; La sofferenza delle ragazze-soldato; L´Afghanistan, al bivio del cammino, deve associarsi alla comunità internazionale; Progressi nella prevenzione e il trattamento della malaria; Promozione e protezione dei diritti umani: il ruolo delle procedure speciali della Commission on Human Rights (Chr); La polizia per la pace: il ruolo nel mantenimento dell’ordine pubblico giocato dai Caschi blù; Sud-Soudan: la strada verso una “pace indivisibile”; La minaccia dell’influenza aviaria diminuisce, ma la minaccia di una pandemia umana non è sparita.

«Se I media sono nostri partner privilegiati per veicolare quel che vogliamo diffondere – dice Kiyo Akasaka, segretario generale aggiunto dell’Onu per la comunicazione e l’informazione – però, lavoriamo con difficoltà, e siamo guidati da priorità differenti. Sono persuaso che potremmo mettere in evidenza dei soggetti che sarebbero seriamente dimenticati. Quando evochiamo la lotta contro la malaria, per esempio, non minimizziamo per questo l´importanza dell’Aids o della tubercolosi. Ma allo stesso tempo comprendiamo sempre di più cose su queste malattie, dobbiamo e possiamo così mettere l’accento sui progressi realizzati per sradicare la malaria, che è una malattia curabile che si può prevenire».

La lista dei problemi “dimenticati” non è stata stilata per essere rappresentativa di tutto il ventaglio delle questioni trattate dall’Onu, né riflette un ordine di priorità, ha come obiettivo quello di sollecitare un’attenzione mondiale, nella speranza di permettere una migliore comprensione selle questioni che comprende. […]

«Se certi problemi sono dimenticati – si legge nella nota del Dpi che accompagna la lista – e altri sembrano essere esposti in maniera eccessiva, sembra che l’attenzione accordata a dei successi o a dei progressi realizzati, per esempio nel campo della risoluzione di crisi (nord dell´Uganda), o per esempio nel campo della lotta contro l’influenza aviaria, resta insufficiente».

GreenReport.it, 28 marzo 2008

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