LE ESCLUSE di Gemma Volli: fra genere e storia

Maria Corti, studiosa di letteratura, considera l’autobiografia di Sibilla Aleramo, “Una donna”, uscito nel 1906, ‘una dichiarazione di guerra’. Originale “ritratto di signora” che, scegliendo di vivere ‘solo per sé’, attraversa la cultura italiana di mezzo secolo.
Scelta ardua, anzi impossibile per le “Le escluse” di Gemma Volli, che pubblica la sua raccolta di novelle nel 1938, presso l’editore Cappelli di Bologna. Provvidamente ristampata nel 2006 da Ibiskos Editrice, offre l’opportunità al lettore e allo studioso di indagare la condizione femminile nell’Italia del Ventennio e di godere di una letteratura di genere di buona qualità.
Il libro mette in scena una serie di figure femminili, donne ritratte nel passaggio fra giovinezza e maturità, quando, nel tentativo di costruire la propria vita, lo scontro fra aspirazioni e vincoli psicologici e sociali, può farsi drammatico. Donne che per debolezza psicologica, economica o sociale non riescono a sostenere il conflitto, accomunate tutte dalla medesima condizione di vinte. E gli echi verghiani, nel tema di un destino inesorabile coi deboli, nello stile asciutto e nello sguardo oggettivo, certo non mancano.
Se l’urlo dell’Aleramo è il segnale di una rivolta, l’amaro disincanto della Volli costituisce una specie di tregua prima del riscatto. Solo dopo la seconda guerra mondiale le italiane saranno parificate sul piano delle leggi e passeranno ancora anni prima che termini come ‘emancipazione’ e ‘femminismo’ acquistino significato non solo per le élites.
Molte cose erano già cambiate, in realtà, nel periodo che intercorre fra l’uscita dei due libri. Le donne, soprattutto quelle urbanizzate, anche in seguito all’esperienza della prima guerra mondiale, si erano affacciate in maggior numero al mondo della cultura e del lavoro.
Il Fascismo, pur con atteggiamenti non univoci, impone una sorta di freno, esaltando il modello di una società ‘maschia’ che attribuisce al femminile il ruolo di custode e garante dei valori maschili. Certo esistono nella pratica delle eccezioni. Negli ambienti intellettuali alcune donne giocano un ruolo importante, come in tutte le epoche, del resto. Margherita Sarfatti, entusiasta biografa del Duce, ne è un esempio. Ma anche Grazia Deledda, Ada Negri, per citare solo le più famose. La stessa Aleramo, dopo un vago antifascismo, riesce ad ottenere, per interessamento della regina Elena, nel 1933, una pensione di 1000 lire al mese. Esisteva un’Associazione nazionale fascista delle donne artiste e laureate, ma si trattava di ‘corvi bianchi’ o ‘pecore nere’ a secondo di come la si voleva intendere
Ugo Volli nella bella prefazione a “Le escluse” individua nel testo un dualismo, più che sociale o di genere, (gli uomini sono pochi e generalmente ininfluenti rispetto al destino femminile), fra debolezza e forza. Osserva come ogni successo vi emerga quale frutto della “necessaria dose di insensibilità e disprezzo” (pag. 27) e che nella scelta dell’autrice di mettere in scena coloro su cui il sipario resta perennemente calato, sta la vocazione “provocatoria” e scandalosa del libro, in un contesto culturale che tende alla retorica e al trionfalismo.
La maestra Paola, protagonista del racconto “Ai margini della felicità” osserva “che si fa più strada a essere cattivi, e che a esser buoni non si è apprezzati nemmeno dai propri parenti” (pag. 52). Morale che ritorna spesso: il successo come eco lontana di chi ha saputo tacitare ogni scrupolo, di chi ha oltrepassato la barriera morale che si frappone fra sacrificio di sé o degli altri.
Quel salto che Sibilla Aleramo riesce a compiere rinunciando al figlio, spezzando quel ricatto sentimentale cui i personaggi di Gemma Volli non sanno tener testa.
Se l’Aleramo è un simbolo di successo, “le escluse” rappresentano tutte coloro che in qualche modo la vita ha deluso, cui è stato sottratto qualcosa, in termini di affetti, di ruolo sociale, di riconoscimento. Cui resta solo la cruda coscienza del proprio soccombere.
Donne sole che già nel loro contesto familiare risultano marginali, orfane o figlie su cui, per carattere o altro, le madri non hanno investito. Che non avendo goduto dell’accoglienza materna non maturano fiducia in sé stesse e il cui tentativo di rivolta resta illusorio e velleitario. Grande intuizione dell’autrice di origine triestina, che certo non ignorava le moderne teorie psicoanalitiche. Donne che stentano a trovare una propria collocazione anche all’interno di ciò che la società destina loro: il matrimonio o comunque un lavoro di cura. La cui debolezza è innanzi tutto interiore, inermi di fronte a una condanna sociale sostanzialmente condivisa.
Sandra, protagonista de “Il peccato”, non a caso il racconto che chiude la raccolta, sconta con la morte della madre e un conseguente devastante senso di colpa, l’aver cercato in un amore gaio e leggero compensazione ad una vita tetra e sacrificata: “Mamma non morire, non lasciarmi sola col mio rimorso, perché io so di non meritare questa pena atroce. Io ti vorrò tanto bene, non cercherò altri affetti, non penserò ad altri che a te!” (pag. 215-216).
Dora de “La vinta che ritorna” è ormai rassegnata alla regola degli affetti per cui “è legge di natura amare di più chi pretende di più, dare più amore a chi pretende più sacrificio…Perché avrebbe dovuto volerle bene sua madre, proprio a lei che non le aveva mai chiesto niente…l’unica dei suoi figli che non aveva avuto bisogno…?”(pag. 139)
Quanto diversa la vicenda di Sibilla Aleramo, già da bambina indiscussa prediletta del padre, che giovanissima si muove nel mondo con “l’andatura rapida di persona affaccendata” (“Una donna” Feltrinelli 1997, pag19), sicura di sè tanto da suscitare soggezione, oltre che nei fratelli minori, alla stessa madre.
Anche Sibilla è una donna sola, ma la sua è una solitudine elettiva, che la pone ai margini per così dire ‘alti’ del suo ambiente e che la spingerà a cercare oltre i propri orizzonti anime a lei simili. L’isolamento de “Le escluse” è invece il segno della loro inconsistenza sociale e psicologica, il marchio di una colpa, la condanna di chi non riesce ad intravedere alcuna alternativa alla propria condizione.
Non riescono a costruire, tranne poche eccezioni, rapporti autentici, tantomeno un ambiente di riferimento, scontando spesso l’ostilità delle proprie compagne di sventura, perché, in una società che le marginalizza, la lotta è accanita. Solo la maestra Paola Sandri di “Ai margini della felicità” riesce ad intravedere per un po’ la possibilità di vivere in modo diverso, proprio attraverso la solidarietà, o almeno la simpatia di altre ragazze: “Aveva conosciuto ragazze che vivevano sole come lei, ma che lungi dall’avvilirsi, cercavano di approfittare della loro libertà…Come si divertì quell’anno! com’era soddisfatta di sé e degli altri! Soltanto quell’anno, il solo, in tutta la sua vita.” (pag. 52-54)
Torna in mente la vicenda della giovane maestra Ada Negri che proprio dalla condivisione della sua esperienza con altre compagne, trova impulso a una tenace autoaffermazione.
Anche la maestra Paola aveva sognato di “uscire dalla piccola vita, facendosi conoscere…in un modo o nell’altro” (pag. 46). Ma poi “ convinta dell’impossibilità di riuscire, si era rassegnata a vivere nell’ombra” (pag. 46).
Impossibilità e rassegnazione sono la vera cifra di tutte le storie, donne la cui unica forza si esplica nella capacità di servire e di sopportare, nella inesorabile fatica di un lavoro modesto, senza prospettive: “tutto ciò che aveva ottenuto nella sua vita lo aveva raggiunto con lenta e costante fatica” (pag.45).
Esse appartengono proprio a quella “gran folla delle inconsapevoli, delle inerti, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione” (Una donna, op. cit. pag 114), che la coraggiosa Sibilla compiange.
Che Gemma Volli conoscesse il mondo di quelle donne sole, impiegate, maestre, sarte…che la vita rischia ogni momento di sommergere, lo si può rintracciare nella sua biografia. Pur nata in una famiglia benestante, la morte precoce del padre le fece probabilmente patire il venir meno della sicurezza, quel sentimento della vita come qualcosa di stabile, di cui benessere e felicità costituiscono il naturale coronamento. Il lavoro delle sorelle, le borse di studio per accedere all’Università, poi l’insegnamento in giro per l’Italia e infine l’esclusione dalle scuole superiori per una legge fascista che riteneva le donne inadeguate a formare ‘virilmente’ i giovani italiani, sono tutti elementi che possono averla spinta ad avvertire una sorta di malinconica vicinanza a quel mondo che pure non era il suo. Della sua stessa madre, costretta ad affittare alcune stanze della grande casa, si trova forse eco nel personaggio di scià Silvia del racconto “In riviera” che, incappata nella sventura del suicidio dei propri inquilini, così si difende: “Io sono di buona famiglia, non sono un’affittacamere: ma ora sono costretta, per far studiare mia figlia…capirà, sono una povera vedova” (pag. 90).
Tutte creature che Gemma ha sfiorato, donne come lei, sulla natura e sul destino delle quali si è certo interrogata. Rispetto alle quali ha probabilmente anche marcato la propria differenza, prima fra tutte il possesso di quel grande strumento di riscatto e autovalorizzazione che è la cultura. Segnata oltretutto dalla peculiarità di una storia e di un’appartenenza che, pur nell’illusione della comune italianità, andava a configurarsi come qualcosa di ‘altro’. Gemma, ebrea triestina, era nata Wohl. Come molti correligionari della città era stata un’irredentista e aveva applaudito all’assegnazione di Trieste all’Italia. Ma proprio per la sua appartenenza regionale aveva avvertito prima di altri come il nazionalismo fascista mirasse alla cancellazione di ogni diversità, macchia dell’identità nazionale, avviando una campagna d’intolleranza verso gli slavi di quelle terre. Italianizzò il suo cognome in Volli. Contemporaneamente affluivano a Trieste profughi ebrei cacciati dalla Germania, perlopiù diretti in Palestina. Gemma si dedicò con passione alla loro causa. Lei stessa nel 1935 compì un viaggio in quelle terre ancora ‘esotiche’.
Insomma la radicalità della sua condizione di ebrea in un’Europa che si riscopre antisemita, procede di pari passo con l’incongruenza dell’essere donna in una società che esalta la forza virile come valore primario.
La doppia empasse dell’autrice, donna e ebrea, culmina proprio nel 1938, data di pubblicazione del libro e di promulgazione delle leggi razziali.
Perdita della condizione di ‘cittadina’, caduta di ruolo, ma anche di status economico, tutti elementi che sembrano risospingerla verso il mondo umile e affaticato delle escluse, ma da cui ancora una volta trova riscatto nella presa di coscienza, orgogliosa e consapevolmente assunta, della propria radice ebraica. Le donne, escluse dai privilegi, che tutto devono conquistare con la propria tenacia, meno abituate dell’uomo a fare del riconoscimento sociale misura del proprio valore, sembrano sopportare meglio dei loro compagni le situazioni difficili e i ribaltamenti della fortuna.
Che Gemma Volli, dopo il 1938 si dedichi in modo esclusivo a quella vocazione di storica dell’ebraismo, che già precedentemente si era manifestata, avviene nel segno di una discontinuità solo apparente.
Così l’Aleramo, dopo aver ritentato infinite volte di realizzare il sogno d’amore, quale perfetta armonia fra i sessi, si rassegna a quell’unico che sembra meno legato al capriccio del contingente, cioè quello verso l’umanità tutta, dedicandosi alla lotta politica.
Insomma due intellettuali che, pur attraverso percorsi e vissuti molto diversi, partono entrambe da una riflessione sull’identità femminile, tema che ad un certo punto sembrano accantonare in nome di una appartenenza più vasta e di una lotta più urgente.
Oggi in cui i diritti della donna sono di nuovo messi in discussione e in cui è necessario tornare a riaffermare quelli più elementari quali il diritto alla vita, all’istruzione, alla libertà di scelta, all’autodeterminazione, esistono di nuovo questioni più urgenti?
Le vecchie ideologie predicavano che solo nell’emancipazione dell’umanità si sarebbe realizzata anche quella femminile. Dopo il crollo di tante illusioni io credo esattamente il contrario: che solo la piena libertà della donna garantisca una società libera e democratica per tutti.

Gemma Volli – Le escluse.    Ibiskos Editrice Risolo  2006

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A quale scopo una pena distruttiva e immutabile?

di Vincenzo Andraous

Come è possibile proporre di abrogare la legge Gozzini, una normativa che negli anni ha consentito di migliorare le persone in carcere, di fare davvero promozione umana, una prevenzione non fondata sulla vendetta, su quei sentimenti che non consentono giustizie sociali né pace per alcuno?
Perché è vero: la violenza regna dove l’ingiustizia ingrassa.
Conosco il sentire comune del “chi sbaglia paga” e la difficoltà a coniugare una giusta e doverosa esigenza di giustizia da parte della vittima di un reato, con una possibilità concreta di riscatto e riparazione in chi ha offeso l’altro.
Pagare il proprio debito alla società non può significare la creazione di una nuova dimensione di violenza, in una pena distruttiva e immutabile, che non consente di fare i conti con il peso delle proprie colpe, con le lacerazioni che hanno prodotto la rottura del vivere civile.
Quanto è difficile chiedere perdono in queste condizioni?
E quanto essere perdonati?
Ciascuno vive il suo presente in funzione delle scelte fatte nel passato, non per un sottile gioco delle maschere, ma perché le azioni del cuore, se non condivise, non consentono di essere scelte.
Allora ricostruirsi sottende capacità e forza per riparare al male fatto, richiama l’altro-gli altri ad accorciare le distanze, affinché l’uomo chieda perdono non con le parole, né con la pietistica abbinata alle più alte autorappresentazioni, bensì nei gesti ripetuti, nei comportamenti quotidiani.
Rimangono le responsabilità e gli abissi dell’anima, nulla è cancellato, niente è dimenticato, ma sentire dentro il bisogno di perdonarsi, di avere pietà di se stessi, indica la via maestra per l’altro bisogno: essere perdonati per ciò che si è nel presente, nella consapevolezza degli errori disegnati a ogni passo in avanti, condividendo quel bene comune che è intorno a noi.
Perdonarsi e chiedere perdono è voce che parla al cuore con note forti, per tentare di tramutare l’ansia e il dolore delle vittime in una riconciliazione che sia cambiamento fruibile per la collettività tutta.
Penso che una vendetta che ripara teatralmente non produca nulla di positivo, e neppure un carcere che mantenga inalterata la follia lucida di chi ha commesso un reato.
Accontentarsi di chiedere maggiore severità nelle pene da espiare, induce la persona detenuta a convincersi di aver pareggiato il conto, di aver pagato quanto dovuto.
Invece, riconoscere il bisogno di perdonarsi e perdonare, sottolinea l’urgenza di un percorso umano ( non solo cristiano ) nella condivisione e reciprocità, nell’accettazione di una possibile trasformazione e di un fattivo cambiamento di mentalità.
Cancellare la Riforma Penitenziaria o legge Gozzini?
A ognuno di noi spetta il compito di diventare un entronauta, un viaggiatore contempl-attivo, persino in carcere, in una pena finalmente accettata e vivibile.

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C’e’ mare e mare

Tutti al mare!… E’ lo slogan che risponde al bisogno di tutti quando scoppia l’estate con la sorpresa di un caldo, atteso sì, ma sempre “eccessivo”, perché nell’inverno ci si è dimenticati com’è.
Certo, soprattutto per chi ha la fortuna di abitare a due passi  dalla costa, che si raggiunge in una manciata di tempo.
Soprattutto al mare corrono i ragazzi e i giovani studenti, consumato il rash finale della scuola tra stanchezza e tensioni, fin dall’ “ultimo giorno”, che è per tradizione festa di spiaggia, con il rito del bagno purificatore.
Penso a loro e sorrido, ricordando le mie stesse urgenze di liberazione, il piacere sadico di buttare via, sulla sabbia dove capita, i due libri ancora nello zaino dell’ultimo giorno …
Non immaginerei mai e poi mai di ritrovare frotte di ragazzetti alle prese con i libri, ancora!
Al mare, sì, al mare di Rimini ! ma… ad un “Mare di libri”. Il 20, 21, 22 giugno, quando il cielo saetta luce e calore fino a 38° C!
Questi piccoli eroi, ragazzetti, adolescenti e giovani, hanno scelto di stare al mare in compagnia dei libri. Libri da leggere, non da studiare, è vero, ma pur sempre libri che propongono il gioco delle parole, che non è dei più facili e immediati. Libri che regalano immagini solo se si entra dentro veramente nelle storie. Libri che sottraggono tempo agli amici, alla televisione, alla playstation, agli sms…
Estremamente coraggiosa, la sfida delle tre giovani libraie di Rimini che, in collaborazione con la rivista “Fuorilegge”, hanno lanciato per la prima volta l’iniziativa “Mare di libri. Festival dei ragazzi che leggono”. Una sfida vincente.
Ci sono infatti giovanissimi, tanti, che si aggirano per le strade silenti della città in ebollizione, che hanno disertato la “spiaggia di Rimini”, notoriamente spiaggia attrezzatissima e tutto confort, per trovare frescura nei luoghi del Festival, la sala degli Archi, i Chiostri degli Agostiniani, la sala del Museo della città…
Per incontrare “i loro Autori”, per fotografarli, ascoltarli e interrogarli – quante mani alzate, a gara, e quante spontanee e intelligenti domande, nel tempo solitamente vuoto, tragicamente imbarazzante per il pubblico adulto!
Per comperare, a pacco, gli ultimi libri-novità del genere amato, farseli autografare, e poi portarseli via in un abbraccio gioioso.
Per scoprire chi sono i giovanissimi autori, quasi loro coetanei, i “casi letterari” che sono arrivati all’improvviso al traguardo del successo, e lo raccontano, dopo aver scritto, come loro, pagine e pagine di storie ed emozioni. Perché spesso i ragazzi che amano leggere sono i ragazzi che amano anche scrivere.
E sono qui,  nella  Rimini  del solstizio, anche per lavorare. A piccoli gruppi i giovani dello “staff” – in caratteri neri sulle magliette bianche – si muovono affaccendati tra una sede e l’altra del Festival caricando sulle loro bici  scatoloni di libri, guidano e informano con i sorrisi birichini, presentano gli incontri con facce all’improvviso seriose… Sono appena usciti dalle aule delle Scuole Superiori della città, e si sono messi, volontari, al servizio della promozione di un bene che, si teme, sia  out per la generazione giovanile.
Ma questi giovani di Rimini o giunti appositamente a Rimini – splendida la scena di una processione di una ventina di ragazzi che attraversano la piazza torrida trascinandosi i trolley ( una scena felliniana, mi viene da pensare mentre li guardo) – amano leggere.

Me ne vado da Rimini col calore nel cuore, non solo sulla pelle.
Confermo la mia fiducia nei giovani.

:: Le foto del festival

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La fabbrica della paura

di Clotilde Masina Buraggi

Straniero, rom, clandestino, pericolo, paura: queste parole si rincorrono, ormai da mesi, dall’inizio della campagna elettorale in poi, insieme a quell’altra -“sicurezza” – che ci viene offerta dalle destre come se esse fossero le più adatte a liberarci da ogni minaccia. Naturalmente, problemi di ordine pubblico esistono anche in Italia e questa percezione ha orientato il voto di molti elettori; eppure in molti sentiamo, più o meno chiaramente, che la paura è un’emozione che può essere incrementata artificialmente nell’opinione pubblica; e che proprio questo è avvenuto. Vale allora la pena di domandarsi che cosa sia la paura, come si presenti nello sviluppo psichico delle persone, e se davvero possa essere influenzata da chi si presenta poi come detentore di poteri salvifici.
La paura è una emozione importante nella vita psichica. I genitori, quelli animali e quelli umani, proteggono i loro piccoli alimentandone l’allarme nei confronti di tutto ciò che rappresenta un pericolo per la loro sopravvivenza, e dal canto loro i piccoli chiedono loro protezione quando hanno paura. Anche i cinque sensi, predisposti a questa funzione e stimolati dai genitori, mettono il bambino o il cucciolo nelle condizioni di riconoscere, per es., quando un sapore o un odore è diverso dal consueto, da ciò che è ormai noto come innocuo o   addirittura come benefico. L’ignoto può recare danno: se un bambino non ne avesse paura,  non vivrebbe a lungo; gli ospedali pediatrici  sono pieni di bambini “senza paura” che hanno mangiato “caramelle”, che invece erano medicine, o bevuto “aranciate”, che invece erano detersivo.
La paura è una emozione importante anche nello sviluppo psichico. La nostra crescita avviene attraverso un susseguirsi di  attaccamenti e di distacchi dalle figure di accudimento  e in questa vicenda la paura è un elemento essenziale. Gli psicologi vanno sempre più sottolineando quanto siano fondamentali per la strutturazione psichica del bambino l’attaccamento alla madre, nei primi mesi di vita, ma quanto sia necessario, anche, che, a partire dal sesto mese, si sviluppi un processo separativo. Da questo momento in poi, il piccolo, più maturo dal punto di vista neuronale, diventa  gradualmente capace di percepire che lui e la madre non sono una cosa sola, che egli è limitato e quindi inerme e dipende da un’estranea che potrebbe andare perduta e ciò gli fa paura. Nei  sogni di pazienti in  terapia analitica che rivivono questo periodo separativo, ri-compare talvolta l’angoscia relativa a tale percezione; allora la madre può essere rappresentata in forme terrificanti (come la dea Kalì, con otto braccia o come una strega. Le favole sono costituite da questi vissuti). In un normale processo di sviluppo successivamente la madre amorevole viene recuperata e  il senso di estraneità che il bambino aveva vissuto nei suoi confronti e che lo aveva tanto spaventato viene spostato sul padre che, comparendo sulla scena, può apparire al bambino una fonte di paura, come, del resto, ogni persona “nuova” cioè non ancora  conosciuta. Gli specialisti dell’età evolutiva  considerano un segno di maturità psicologica che un bambino in braccio alla mamma, a circa otto mesi, guardi un estraneo che gli si avvicina con interesse ma anche con paura, sospetto e ritrosia. (Incide  sulla paura del bambino, e su come egli riesce a superarla, non solo il rapporto di ciascuno dei genitori con lui  ma anche  la modalità della relazione genitoriale. Quando  i genitori litigano, cioè scaricano sul coniuge le proprie frustrazioni,  è come se le scaricassero sul bambino, e quindi aumentano la sua paura invece di lenirla).
Il  gioco del rapporto a due,  che viene sempre interrotto da un terzo che spezza l’intimità (ma allarga le relazioni) continua per tutto lo sviluppo: nella tappa edipica, nell’adolescenza e anche più avanti quando un nuovo  nato disturba l’idillio a due dei novelli sposi. Al terzo che interviene si guarda sempre con difficoltà e una certa paura (pensiamo ai giovani padri che spesso accolgono con gioia, ma anche con timore, il piccolo, temendo che prenda il loro posto nel cuore della moglie).
Da questa breve panoramica si può vedere come la paura  abbia una funzione dinamica  essenziale nello sviluppo;  come tuttavia per diventare fattore positivo di crescita debba essere quantitativamente  e qualitativamente regolata.
I genitori e tutti coloro che hanno cura di un bambino intuiscono facilmente che la sua struttura psichica si sviluppa in modo graduale,  e così  anche la capacità di  contenere le  emozioni; e che  la paura provata dal piccolo non deve essere di qualità e intensità tale da superare tale capacità. Un processo educativo può essere considerato buono se è capace di utilizzare la paura  quando è necessario,  ma di attenuarla quando diventa eccessiva. Il grande psicoanalista  Wilfred Bion scriveva che il compito principale della madre è quello di liberare il bambino dal “terrore senza nome” che, soprattutto nei primi tempi della vita, potrebbe annientarlo psichicamente, o addirittura fisicamente, se egli si sentisse in uno stato di inermità eccessiva. Quando la paura è superiore alla propria capacità di contenimento diventa panico: il rapporto equilibrato cognitivo-emozionale allora si spezza.  Chi è in preda al terrore non è più in grado di ragionare e può avere comportamenti insensati. (Pensiamo a certe reazioni illogiche dopo l’attentato delle Due Torri: persone che si lanciavano dalle finestre del trentesimo piano!).
Sono  i genitori, quindi, i primi ad aiutare il bambino a costruirsi una propria  struttura autonoma di contenimento della paura, ad aiutarlo ad avere criteri di discernimento su ciò che realisticamente è da temere; e anche a diventare capace di non proiettare su altri in situazioni difficili i propri timori. Quello della proiezione è un meccanismo difensivo molto comune: si tende ad addossare sui cosiddetti capri espiatori la causa delle proprie paure.  Questo fenomeno ha gravissime ripercussioni sociali e politiche anche perchè la proiezione tende ad essere rivolta su soggetti deboli impossibilitati a difendersi e quindi a produrre ritorsioni.
Tuttavia se all’inizio della vita sono  soprattutto i genitori che svolgono le funzioni nominate sopra è evidente l’importanza più avanti di tutte le altre fonti formative: dalla scuola ai mass-media, alle associazioni sportive o “culturali”. La paura, quindi, non è una emozione che si sviluppa da sola nell’adulto: l’individuo è circondato, lo voglia o no, lo sappia o no, da una rete di condizionamenti esterni. La paura non è mai un’emozione oggettiva.
Si può affermare, anche,  che nel discernimento della paura, ognuno stabilisce criteri di gravità dei pericoli che lo circondano; e che tali criteri possono essere egoistici o altruistici. Sono criteri egoistici quelli che ritengono pericolosi, quindi da evitare, quegli eventi che possono essere dannosi per la categoria a cui  si appartiene e, invece, altruistici quelli che tengono conto del danno che potrebbe derivare agli altri. Dante scriveva: “paura si dee avere di quelle cose che hanno il potere di fare altrui male, dell’altre no che non sono paurose”.
Chi ha responsabilità di gestire l‘informazione e, in termini più vasti, la cultura dell’opinione  pubblica dovrebbe, naturalmente, avere l’onestà di fornire dati veritieri sulle dimensioni dei pericoli che minacciano la vita sociale, aiutando l’opinione pubblica a discernere ciò che è veramente da temere da ciò che  è marginale e non rappresenta un reale pericolo.  Invece è sempre avvenuto che i detentori del potere utilizzassero ai loro fini la diffusione della paura, la tipologia dei pericoli etc. A questo modo, essi ottenevano e ottengono due risultati: il primo, di stornare l’attenzione dei cittadini da problemi che metterebbero in crisi la loro egemonia e, il secondo, di spingere i cittadini a rivolgersi proprio a loro perchè i pericoli possano essere cancellati. Questa strumentalizzazione della paura, che una volta veniva fatta in maniera rudimentale, oggi viene elaborata da tecnici della comunicazione che  conoscono bene i meccanismi psichici; ed è fortemente incentivata dalla presa che i mass-media hanno sulla vita di ciascuno di noi. D’altra parte anche gli operatori dell’informazione che non dipendono direttamente dal potere, per ragioni di mercato privilegiano nei loro programmi ciò che gli sembra appassionare particolarmente gli utenti. Si costituisce così una sorta di circolo chiuso: più informazioni inquietanti più audience più informazioni etc.
Entra in ballo anche il criterio della selezione delle notizie. Se un romeno (non un rom) violenta un’italiana, al di là della gravità effettiva del caso si scatena una campagna mediatica di proporzioni ben più vaste di quella che dovrebbe essere incentrata sul fatto che ogni sera decine di migliaia di italiani  stuprano minorenni asservite da una “tratta delle bianche” che ha assunto dimensioni orribili, E ancora: abbiamo vissuto, giustamente, con orrore e pietà l’uccisione di una ragazza romana da parte di una coetanea  romena ma nessuno parla più del fatto che una ragazza romena è in coma da più di un anno perchè una povera squilibrata italiana l’ha spinta sotto un convoglio della metropolitana o del fatto che un italiano ha stuprato una romena. Se un sinti ubriaco travolge e uccide quattro ragazzi su una strada delle Marche, giustamente si grida  ma se due ragazzi della Valtellina travolgono e uccidono una madre col suo bambino, ecco tutti testimoniare che erano “due bravi ragazzi”.
Infine, ci si  trova spesso  a constatare (basterebbe leggere le statistiche ma non è facile trovarle)  che certi allarmi che hanno massima diffusione sono ben poco giustificati: Roma, per esempio, è una città ben più sicura di Londra o di New York.
La ripetizione martellante, inoltre,  della notizia che lo stupratore appartiene a un campo nomadi produce una generalizzazione: tutti gli abitanti dei campi nomadi sono stupratori; se lo stupratore è un rom, tutti i rom diventano stupratori. I rom sono spesso stranieri (ce ne sono anche di italiani), i romeni  che hanno un nome simile ai rom, sono quindi stupratori come i rom, ma i romeni e i rom sono stranieri quindi anche tutti gli immigrati sono potenziali stupratori. Questi passaggi così privi di logica, seguono le regole della logica dell’inconscio: la logica che prevale nei bambini e nelle strutture psicotiche. Questa logica. intrisa di emozioni e in particolare di paura diventa dominante sulla logica del conscio, che segue le leggi della razionalità, soprattutto quando ci  si sposta da un livello di conoscenza concreto di un singolo individuo, per es. arabo, a una classe generalizzata che perde caratteristiche reali e si impregna di proiezioni emozionali. Nel primo dopoguerra, in cui la Germania era prostrata dalla crisi economica si presentarono dei salvatori (come Hitler e il suo maestro, Mussolini), i quali,  invece di affrontare seriamente la  legittima paura dei cittadini la convogliarono su capri espiatori come gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari. (I capri espiatori sono sempre i più deboli che si spera possano essere facilmente “derattizzati”).  La proiezione della paura attuata  allora difensivamente dal singolo si trasformò in un fenomeno più complesso, in paura collettiva, potremmo dire in follia collettiva.
In un articolo di Antonio Gnoli (La Repubblica 23 maggio 2008) trovo scritto: “In fondo ciò che l’Occidente nelle sue componenti più ciniche e affaristiche ha sempre saputo gestire è la paura. Sia che si tratti di un sentimento nato da una finzione, sia che sgorghi dai segreti meandri della realtà, la paura – moneta che circola abbondantemente nei giorni nostri – è un motore formidabile che alimenta immaginario e potere, i loro lati oscuri, notturni, impenetrabili. Ma soprattutto disorientanti”.
Certe paure sono un fenomeno classista. Da sempre gli abbienti hanno temuto i poveri, come possibili  aggressori. Il povero, essendo sporco, analfabeta, malato non poteva che essere cattivo. Un po’ dovunque, nella civile Europa, accanto ai manicomi, e spesso insieme ai manicomi, vi furono carceri per poveri, il cui unico reato era quello di essere costretti a vivere ai margini della società “bene”. I “marginali” erano  sempre sospetti: e tali sono oggi gli immigrati che non ricevono accoglienza e vivono una vita precaria e misera.
Tutte le minoranze sono poste in pericolo dalle paure più o meno orchestrate. Noi anziani non potremo mai dimenticare come negli anni del fascismo e del nazismo furono falsamente  e artatamente ricercati  i difetti degli ebrei: essi furono presentati come usurai, avari, minacciosi, pronti alla congiura; come fu esasperata la ripugnanza per le bruttezze dei disabili, per la pericolosità dei  “pazzi”, come furono calunniati gli zingari. Un odio di massa fu, anche con l’uso di tecniche scientifiche, diffuso in tutto il paese. Per queste infamie, milioni di persone non furono più considerate tali e  “meritarono” l’eliminazione nei campi di sterminio.
E oggi? Noi vecchi siamo allarmati quando ci pare di vedere il profilarsi di comportamenti che abbiamo già conosciuto. Il ripetersi del “dèjà vu” è estremamente doloroso. Le paure “politiche” minano gravemente la civiltà. Fanno, per esempio, investire in armi personali (da “difesa”) o belliche mostruosi capitali che potrebbero risolvere enormi problemi ambientali, questi ultimi davvero minacciosi. Si pensi che la sola guerra in Iraq costa agli Stati Uniti 3 miliardi di dollari alla settimana. Ma la paura corrode particolarmente le democrazie. Dopo la strage delle Due Torri l’uso della tortura è dilagato e tocca anche l’Italia,  sia perchè i nostri  governi non hanno impedito i rapimenti di cittadini stranieri sul nostro territorio, sia perchè alcuni italiani sono stati consegnati a governi  di cui  sono note le violazioni dei diritti umani, sia perchè (come s’è appena saputo) agenti dei nostri “servizi” sono stati “operativi” a Guantanamo. Insomma la paura può produrre mostri perchè è una specie di sonno della ragione.
L’argomento della paura dell’Altro, dello straniero, è stato sempre complesso e difficile in ogni tempo e per ogni uomo tanto da essere  preso in esame in epoche storiche remote. Nel primo libro della Bibbia, la Genesi, è scritto che Dio promette alla discendenza di Abramo di diventare una nazione grande e potente e di benedirla se agirà con giustizia e diritto; ma quando il Signore osservando la terra vede il violento comportamento di Sodoma e Gomorra si indigna: “Il grido contro Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato troppo grave. Voglio scendere a vedere se hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me” (Genesi 18, 18-21). Che cosa hanno fatto di tanto grave queste due città per suscitare la collera del Signore? Una interpretazione le accusa del peccato di sodomia. Ma vi è un’altra interpretazione rabbinica a cui accenna Moni Ovadia nel suo libro “Oylem Goylem”.  Essa è meno legata a temi sessuali  ma  è più attinente alle vicende ricorrenti della storia e attualissima ai nostri giorni. Due stranieri (in realtà due angeli) arrivano a Sodoma e gli abitanti di questa città  “giovani e vecchi, tutto il popolo al completo” cercano di fare violenza ai due uomini perchè stranieri, invece di accoglierli e di  rispettare il dovere di ospitalità  sacro a quei tempi e ancora oggi in molte parti della terra.
Questo racconto ci riguarda, oggi? Le leggi, vanno fatte secondo giustizia, cioè nell’assoluto rispetto  della dignità umana, che non può essere calpestata dalla motivazione della paura. Noi corriamo il pericolo, come a Sodoma, di regredire  per paura, scaricando sugli stranieri le nostre ansie spesso fraudolentemente aumentate da certi politici. E Sodoma  fu cancellata dall’ira del Signore.

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Giornata mondiale del rifugiato

Costituzione della Repubblica Italiana

Articolo 10
L’ ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’ effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

:: Dichiarazione universale dei diritti umani
:: I testi della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo [pdf 204 kb]
:: Risoluzione del Parlamento europeo su una strategia europea per i Rom, votata a larghissima maggioranza il 31 gennaio 2008.
:: Presenze trasparenti. Ricerca sulle condizioni e i bisogni delle persone a cui è stato negato la status di rifugiato – Rapporto finale, Giugno 2008 [pdf 943 kb]
:: Glossario

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